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Amati Lettori,
negli ultimi giorni sono emersi fatti di cronaca il cui clamore ha colpito la sensibilità dell’opinione pubblica. Penso al suicidio all’Aia dell’ex generale croato Slobodan Praljak, all’incidente diplomatico per l’inizio del prossimo Giro d’Italia a “Gerusalemme Ovest” e all’incontro del Papa con i Rohingya in Bangladesh. Tutti fatti e persone di cui abbiamo sentito parlare, e forse li abbiamo anche commentati con i colleghi alla macchinetta del caffè. Tuttavia si tratta di fatti e persone che riguardano questioni di cui – ad essere onesti – mai ci eravamo occupati in precedenza. L’intento di questa rubrica è andare oltre le breaking news, ripercorrendo il filo rosso delle singole storie che stanno dietro le singole notizie.
Il 29 Novembre l’ex generale croato Slobodan Praljak, accusato per crimini di guerra dal Tribunale internazionale dell’Aia, si è suicidato davanti ai giudici. Finita la lettura della sentenza di condanna, Praljak ha fermamente negato di essere un criminale e ha ingerito una dose letale di veleno, morendo poco dopo in ospedale. Il suo gesto l’ha reso immediatamente un martire del nazionalismo croato, la causa che trent’anni fa lo portò ad abbandonare la carriera di regista teatrale e televisivo per arruolarsi come volontario nell’esercito.
Forse non tutti sanno che Praljak nacque il 2 Gennaio del 1945 a Čapljina, una città a maggioranza croata in quella che di lì a poco sarebbe divenuta la Repubblica socialista di Bosnia ed Erzegovina, la più eterogenea e turbolenta delle sei repubbliche che componevano l’ex Jugoslavia socialista. Suo padre era un funzionario dell’agenzia di sicurezza nazionale e questo gli permise di studiare nelle migliori università del paese. Prese tre lauree: una in Ingegneria elettronica, una in Filosofia e sociologia ed un diploma all’accademia di arte drammatica. Negli corso degli anni Settanta e Ottanta divenne direttore dei teatri di Zagabria, di Osijek e di Mostar. Diresse serie televisive, documentari e film: divenne così una delle persone più note nell’ambiente artistico e culturale di Zagabria, ma quando morì il dittatore della Jugoslavia, Tito, e l’unità della Federazione iniziò a scricchiolare, Praljak scoprì la passione per la politica.
Presto divenne chiaro a tutti che la Federazione Jugoslava aveva i giorni contati: furono intellettuali come Praljak a pensare che fosse compito loro guidare i compatrioti alla creazione di uno stato moderno e indipendente, richiamandosi e a volte inventando una tradizione nazionale che i loro Paesi, da sempre sottoposti al dominio di potenze straniere, non avevano mai avuto modo di esprimere. Nel 1989 Praljak partecipò alla fondazione dell’Unione Democratica Croata, una formazione nazionalista che avrebbe dominato la vita politica del paese per il decennio successivo. Nel 1990 il capo del partito, Franjo Tuđman, divenne presidente della Croazia. L’anno successivo organizzò un referendum per l’indipendenza e, dopo che l’80% degli elettori si espresse per il “Sì”, dichiarò l’indipendenza del Paese. La Serbia, che dominava quel poco che restava della Federazione jugoslava, rispose attaccando la Croazia. Praljak si arruolò da volontario nell’esercito nuovo di zecca e, grazie ai suoi contatti politici, fu subito nominato generale. Immediatamente fu inviato al confine con la repubblica di Serbia, da dove l’esercito nazionale jugoslavo si preparava a invadere la Croazia per costringerla a rinunciare alla sua idea d’indipendenza. Dal 3 Settembre del 1991, Praljak e i suoi uomini iniziarono a combattere per difendere la città di Sunja riuscendo nell’obiettivo, ma un altro conflitto stava per scoppiare poco lontano.
L’idea di dividersi la Bosnia tra serbi e croati esisteva almeno dal 1939. Il conflitto che ne nacque nel 1991 fu particolarmente brutale. Per i comandanti croati locali, lo scopo della guerra era creare aree “etnicamente omogenee”, cioè abitate solo da croato-bosniaci, che sarebbe stato facile annettere una volta arrivati al tavolo delle trattative. Così, quando le truppe occupavano una città o un villaggio, provvedevano a espellere la popolazione musulmana, imprigionando in condizioni disumane i maschi in età militare. Praljak, divenuto nel frattempo uno dei più importanti leader militari croati, fu per molti mesi il rappresentante ufficiale dell’esercito croato in Bosnia. Nell’attaccare le città, i croato-bosniaci fecero spesso un uso indiscriminato dell’artiglieria, colpendo obiettivi militari e civili. C’era Praljak al comando delle forze croato-bosniache che attaccarono Mostar, un’antica città musulmana della Bosnia: durante il bombardamento venne preso di mira e fatto crollare lo storico ponte della città, lo Stari Most.
Nel Dicembre del 1995, dopo la fine della guerra, Praljak si ritirò dall’esercito e divenne un imprenditore di successo e un uomo molto ricco. Nel 2004 si consegnò spontaneamente al tribunale dell’Aia, che aveva deciso di processarlo insieme ad altri cinque leader croato-bosniaci per i crimini commessi in Bosnia. Praljak si difese con energia, mantenendo un ricco sito in inglese e croato con tutta la documentazione del suo caso. Nel corso del processo prese spesso la parola per difendersi, interrogando personalmente i testimoni suoi oppositori rimarcando il diritto per ogni popolo di difendersi e aspirare alla libertà. Sembrava in realtà tornato il regista di trent’anni prima, più intento a creare una scena drammatica che a condurre la sua difesa. Il coup de théâtre del suicidio in diretta televisiva è dunque in perfetta linea con quest’istrionica follia. Sebbene in nome della libertà, ciò non toglie i crimini commessi e/o ordinati.
L’altra questione che ha trovato posto sulle prime pagine dei quotidiani riguarda l’inizio del Giro d’Italia 2018 da Gerusalemme. Il salto in Medio Oriente, ufficialmente, ha una motivazione celebrativa legata ai 70 anni dalla nascita dello Stato d’Israele e ai cinque dell’inserimento della figura di Gino Bartali tra i “Giusti” del muro d’onore di Gerusalemme. In realtà, è sotto gli occhi di tutti come i milioni israeliani facciano comodo a RCS. Eppure, gl’ingenti finanziamenti hanno rischiato di svanire in una gigantesca nuvola di fumo a causa dell’equivoco diplomatico sulla dicitura “Gerusalemme ovest” nei comunicati stampa. Un dettaglio, quell’ovest, che per Israele ha un significato molto importante.
Forse non tutti sanno che Gerusalemme è di fatto divisa in due dal 1949, dalla fine della prima guerra combattuta fra arabi e israeliani e vinta dagli israeliani (negli anni precedenti a Gerusalemme convivevano arabi, israeliani e cristiani e l’intera zona conosciuta come Israele e Palestina era unita). L’armistizio sancì che Israele si tenesse la parte ovest della città – che ancora oggi è totalmente israeliana e ricorda molto una città “occidentale” – mentre la Giordania mantenesse il controllo della parte est della città, quella palestinese, che tuttora è abitata in prevalenza da arabi. Fra Gerusalemme ovest e Gerusalemme est fu tracciato un confine, chiamato Green Line. La situazione è cambiata nel 1967, al termine della cosiddetta “Guerra dei sei giorni”: Israele vinse anche quella guerra e conquistò diversi territori fra cui Gerusalemme est, di cui tutt’oggi mantiene il controllo militare unitamente ad un’ampia zona di quartieri limitrofi oggi “inglobati” nel territorio che Israele considera Gerusalemme est. L’ONU e i principali Paesi occidentali non hanno mai riconosciuto l’annessione di Gerusalemme est a Israele, mentre hanno riconosciuto le conquiste del 1948: di conseguenza considerano Gerusalemme est del nuovo Stato della Palestina, ma occupato da Israele. La Green line è tuttora il punto di partenza per le negoziazioni di pace fra Israele e Palestina.
L’equivoco sul Giro d’Italia è stato presto risolto, con le scuse ufficiali ad Israele e la rettifica di tutti i testi in cui compariva la dicitura “ovest”. In una nota, RCS sport ha chiarito che nel presentare il percorso di gara è stato utilizzato materiale tecnico contenente la dicitura “Gerusalemme ovest”, imputabile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quell’area geografica della città, ma che non aveva – a detta degli organizzatori – alcuna valenza politica. Israele ha apprezzato il gesto e la querelle si è dunque conclusa, ciononostante non è concepibile che chi sta al vertice di un’organizzazione come quella del Giro d’Italia non sia consapevole della valenza geopolitica dei termini che vengono utilizzati.
Da ultimo, l’incontro del Papa con i Rohingya. Bergoglio sapeva che li avrebbe incontrati: era condizione del suo viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh. Alla fine sono arrivati tramite il governo, che li protegge e dà loro ospitalità. Qualcuno aveva ordinato loro di non dire nulla: si sono recati in fila indiana dal Pontefice, ma subito volevano cacciarli via dal palco. Lì il Santo Padre si è arrabbiato e ha preteso rispetto: li ha ascoltati a uno a uno con l’interprete che parlava la loro lingua e ha chiesto perdono per l’indifferenza del mondo. “Io piangevo” – ha raccontato nel viaggio di ritorno.
Forse non tutti sanno che i Rohingya sono un gruppo etnico di fede musulmana che risiede principalmente nel nord dello stato birmano del Rakhine. Non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania: una legge del 1982 nega loro la cittadinanza e per questo lo Stato li considera apolidi. Di conseguenza, sono soggetti a diverse discriminazioni e il loro accesso ai servizi statali come sanità, istruzione e libertà di movimento è limitato. Spesso si parla di loro come della minoranza “più perseguitata al mondo”.
Le tensioni durano da anni: soltanto gli ultimi scontri tra la maggioranza buddista dei birmani e la minoranza musulmana Rohingya hanno provocato circa mille morti. L’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU ha definito la risposta militare birmana “sproporzionata”, rispetto agli attacchi dei militanti Rohingya e ha definito quello in atto un esempio di “pulizia etnica”. Amnesty International ha denunciato diverse violazioni dei diritti umani contro i Rohingya, inclusi omicidi, arresti arbitrari, violenze sessuali e la distruzione delle abitazioni tramite incendi. Secondo quanto riporta l’UNICEF, questa nuova ondata di violenza ha portato circa 400 mila persone a fuggire verso il Bangladesh e verso i campi profughi sempre più affollati.
Il Papa, all’Angelus, ha voluto marcare il ricordo di tanti volti incontrati provati dalla vita, ma nobili e sorridenti. La memoria di queste persone ci spinga ad andare oltre il clamore, alla scoperta delle storie che arricchiscono la nostra memoria.
Buona Settimana!
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)