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Amati Lettori, di seguito riporto alcune riflessioni scaturite dalle domande di alcuni ragazzi e ragazze durante l’incontro testimonianza con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano e fondatore della comunità di accoglienza “Kayrós” (associazione nata nel 2000 a Lambrate con l’obiettivo di offrire supporto e alloggio a minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i Minorenni, dai Servizi Sociali e dalle forze dell’Ordine, il cui motto è “Non esistono ragazzi cattivi”) tenutosi il 5 Settembre presso il teatro dell’oratorio Sant’Angela Merici di Brescia moderato dal curato don Filippo Zacchi.
Una premessa importante: “Kayrós” è un termine greco che in italiano potremmo tradurre come “tempo opportuno”, “momento favorevole”, “tempo giusto per”, ”occasione irripetibile”, “evento decisivo”… parliamo di una concezione di “tempo” di tipo qualitativo.
Don Claudio, pensando al tempo – e allo spazio – in carcere, è possibile che non sia concepito come una punizione, ma come rieducazione?
Devo confessare che oggi ho fatto una cosa che non si può fare: mentre Riccardo – li ragazzo autore della “strage” di Paderno Dugnano – stava facendo l’udienza, ho scattato una foto della sua cella: un letto, un lenzuolo, un cuscino, un materassino di gommapiuma.
Il carcere purtroppo produce tanta solitudine, tanto isolamento: le sbarre alle finestre, le porte blindate dicono che tu sei separato dal mondo, dalla società. Quindi, di fatto, il carcere è sempre e comunque un dispositivo punitivo, anche se la Costituzione all’articolo 27 prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Non solo: il carcere rischia di scivolare da un ambiente totale a un ambiente totalitario, dove tu ad un certo punto diventi schiavo di un sistema che ti opprime e dove non hai possibilità di un cammino interiore. Ti adatti, ti adegui e aspetti che finisca. Un carcere così crea ancor più violenza, e quando si combatte la violenza con la violenza poi non rinasce più nessuno.
L’idea di avere il mostro in cella sembra a volte appagare il nostro desiderio di essere “i bravi”. Ma come fai a far immaginare a un ragazzo che è lì per il suo bene, per rieducarlo? Un reato è un reato, ma bisogna poi capire se la pena è rieducativa o diventa una vendetta.
Che cos’è la Giustizia?
Quando ho fatto nascere la comunità Kayrós sono partito dal paradigma di una giustizia riparativa e riconciliativa: se vuoi aiutare un ragazzo a cambiare, devi aiutarlo a riconciliarlo con le proprie ombre, le proprie fatiche, i propri sbagli… devi aiutarlo in uno scavo interiore per riuscire capire cosa è che lo rende così oppresso, così infelice.
Questo cammino ti aiuta a capire anche che cos’è la Giustizia di Dio: qua tocchi con mano che ci sono ragazzi che si pentono, e tu devi stare attento che quel pentimento sia per una liberazione e non per una castrazione di sé.
C’è mai stato un momento in cui ha dubitato dell’efficacia del suo lavoro?
Sempre: non solo ho dubitato, ma anche constatato. Di Dio ce n’è già uno e non c’è bisogno che faccia questa parte. Io non salvo nessuno, io cerco di accompagnare ad un cammino libero di riconciliazione con l’Altro da sé e con Sé stesso. Non è che ci puoi azzeccare sempre: due ragazzi sono partiti per l’ISIS, altri sono morti, qualcuno si è suicidato tornando in carcere, quello degli adulti, alcuni anni dopo…
Il metodo dei cancelli aperti giorno e notte funziona?
Il semplice cancello aperto responsabilizza molto i ragazzi: è una bella sfida quella della libertà, con il rischio di insuccessi. Un ragazzo cresce di prova in prova, ma devi avere il coraggio – tu adulto – di rischiare, poi tutto si affronta. I figli più adeguati, quelli perfetti, che ti fanno contento, che ti obbediscono in tutto e per tutto… non è detto che siano felici. È importante dare uno spiraglio di libertà che mette alla prova.
Come riesce a far cambiare idea a un ragazzo che ormai si sente rassegnato o ad entrare in contatto con un ragazzo oppositivo?
Ricordo la mia prima volta al Beccaria: dopo aver passato tutti i cancelli e i controlli di sicurezza arrivo dal primo ragazzo, mi presento e gli chiedo: “Tu come ti chiami?”. Risposta: “Cazzi miei”. Qualche giorno dopo mi ha chiesto scusa per avermi risposto in quel modo e molto schiettamente mi ha detto una frase che mi ha aiutato molto: “A me non me ne frega niente di sapere che tu sei un prete o il nuovo cappellano, prima devo capire se te ne frega di me”.
Ecco, bisogna capire quanto noi adulti siamo disposti veramente a metterci in gioco quando le risposte sono così spiazzanti. Bisogna anche dare tempo al tempo perché ci si fidi: non puoi pretendere che un ragazzo subito ti capisca e non puoi avere la presunzione di arrivare per forza a dialogare.
Col tempo ho poi imparato che quando un ragazzo non parla è perché ha dei traumi importanti: un ragazzo parla quando si sente di parlare, e tu adulto non lo devi minimamente forzare. Magari non sei tu la sua occasione, magari parlerà con qualcun altro. L’importante è che ci sia collaborazione e che tu capisca che non ce la puoi fare da solo: solo con la cooperazione tra adulti puoi sperare di generare un cambiamento nei ragazzi che hai.
Come si fa a perdonare conoscendo i trascorsi?
Il perdono, per me, è la parola più importante che conosca: è un iper-dono, un dono massimo. Il perdono è gratuito e ti inserisce in una logica di vita assolutamente libera. È la più bella cifra per vivere una vita di senso, una vita riconciliata. Nella mia vita sono stato perdonato tante volte, e ho conosciuto molte persone che davanti a dei torti mostruosi hanno saputo perdonare.
Il perdono è un cammino di due persone che si mettono in viaggio insieme e provano innanzitutto in maniera schietta a capirsi. Per perdonare, contrariamente a quanto si dice con un po’ di retorica, non si deve dimenticare nulla: il perdono vero esige la pienezza del ricordo. Non basta dire “il tempo aggiusta tutto”, ma occorre un cammino nel quale le persone si dicano tutto: che cosa hanno provato, i fatti reali, i punti di vista. Solo così si arriva veramente a perdonarsi. È un cammino faticosissimo, e forse per questo è così difficile.
L’incontro si conclude con la citazione di un passo tratto da un’intervista per la Civiltà Cattolica a Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale e ministra della Giustizia nel governo Draghi.
Ci sono tante esperienze che non fanno clamore, ma che cambiano la storia: nel nostro oggi è meno diffusa la “cristianità”, nel senso di una cultura cristiana condivisa, ma focolai di vita nuova ce ne sono eccome, e ripartirei da lì. Mi permetto di fare un solo esempio, tratto anche dalla drammatica attualità di questi giorni: bisognerebbe andare a vedere la Comunità Kayrós, fondata da don Claudio Burgio per ragazzi con vissuti complessi, percorsi segnati dal penale. Io lì vedo un’espressione di vita nuova, radicata nella fede di quest’uomo, che sta generando una novità sociale, riconosciuta da tutti. Uno scorcio di speranza.
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)