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Amati Lettori,
questi ultimi giorni sono caratterizzati dal viaggio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Asia: un viaggio molto lungo, dal Giappone alla Corea del Sud, dalla Cina al Vietnam fino alle Filippine. La maggior parte delle conferenze stampa congiunte con i leader dei diversi Paesi ospitanti hanno sentito risuonare parole contro la minaccia nucleare rappresentata dalla Corea del Nord. Quello di Trump è stato un alzare i toni di una partita che si gioca sì sulla sicurezza, ma fino a un certo punto.
Il motivo reale di una visita di Stato così protratta in lungo e in largo riguarda in primo luogo l’economia: centrale è la questione commerciale, mentre le altre dichiarazioni fanno da corollario. Durante la visita in Giappone – prima tappa della missione asiatica che si conclude nelle Filippine il 14 Novembre e che ha visto il presidente statunitense anche in Corea del Sud, Cina e Vietnam – Trump ha difeso la decisione di uscire dall’alleanza commerciale del TPP, Trans-Pacific Partnership, presa all’inizio del suo mandato.
“Il TPP non era la risposta giusta”, ha affermato il tycoon, aggiungendo di essere consapevole del fatto di non incontrare il favore di tutti gli ascoltatori. Il Giappone è però fra le nazioni maggiormente a sostegno del TPP: Tokyo aveva ratificato il trattato già alla fine dello scorso anno, prima dell’uscita degli Stati Uniti dal patto di libero scambio che conta undici nazioni dell’Asia-Pacifico a esclusione della Cina. Il punto è proprio questo: tutti i Paesi della regione sanno di dover fare i conti con la presenza sempre più ingombrante del gigante cinese e non è facile un dominio americano laddove la Cina si pone come leader.
L’obiettivo è evitare l’egemonia cinese in quell’area: il TPP poteva riuscirci, ma Trump ne è uscito e adesso deve reinventarsi qualcosa di suo. L’attuale presidente degli Stati Uniti rimescola le carte, dà la colpa all’amministrazione precedente guidata da Obama, ma l’evolversi di un sistema economico non è realisticamente imputabile ad una sola persona. Dipende piuttosto da un insieme di fattori che contribuiscono a determinare un equilibrio geopolitico che negli ultimi anni – e il cambiamento è sotto i nostri occhi – sta spostando il suo baricentro dall’Occidente all’Oriente.
Trump non si rassegna, è normale: ha impostato la sua campagna elettorale prima e il suo mandato poi sul motto “America first”, e vuole fare di tutto per imporsi sullo scenario mondiale. Alcuni risultati li ha portati a casa, ma la sensazione è che non voglia prendere atto dell’irreversibilità delle conseguenze della “globalizzazione” – come l’ha definita lo stesso leader cinese Xi Jinping – e tenti egoisticamente il tutto per tutto con le carte che ha in mano.
Anche il collega Carles Puigdemont fa finta di non capire la realtà. Non è bastata l’incarcerazione dei suoi ex ministri e dell’ex presidente del Parlamento catalano. Non è bastato il mandato d’arresto europeo. Non è bastata la misura cautelare intrapresa dal Belgio, dove si trova, della libertà vigilata. Non è bastato l’annullamento ufficiale della auto-dichiarazione d’indipendenza della Catalogna. No, lui continua a fare come se niente fosse e si crea un sito parallelo a quello ufficiale (il cui accesso gli è stato bloccato) in cui si presenta come presidente in esilio e annuncia la creazione di una “struttura stabile” per coordinare le azioni del governo dall’esilio di Bruxelles, volta a conseguire la “vittoria alle elezioni” del 21 Dicembre e la “liberazione dei detenuti politici”, e contribuirà anche a “denunciare la politicizzazione della giustizia spagnola, la sua mancanza d’imparzialità e la sua volontà di perseguire le idee”.
Nel frattempo, il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy si è recato a Barcellona per dare il via alla campagna elettorale in vista del voto regionale: il premier sostiene di voler “recuperare la Catalogna” con la democrazia. Rajoy, che ha presentato il candidato del Partito popolare alla presidenza della Generalitat, Xavier García Albiol, ha invitato la “maggioranza silenziosa” dei catalani a “riempire le urne con la verità”.
Parola importante, la “verità”. In nome di questo che è l’obiettivo principale di chi fa il mio lavoro, più di 380 giornalisti provenienti da 67 Paesi hanno portato alla luce altre carte rimescolate ben bene da 127 potenti del mondo. L’inchiesta, soprannominata “Paradise Papers”, riguarda affari e operazioni finanziarie spregiudicate che emergono da oltre 13,4 milioni di documenti riservati ottenuti dal giornale tedesco Suddeutsche Zeitung, il quale li ha condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists e i suoi partner tra i quali il Guardian, la BBC, il New York Times e l’Espresso che pubblica in esclusiva per l’Italia insieme con Report.
Nella lunga lista sono finiti 127 potenti del mondo, fra i quali Lewis Hamilton, ma anche cantanti del calibro di Bono Vox e Madonna. Fra i politici più noti, sono coinvolte figure dell’amministrazione di Donald Trump, il braccio destro e regista dell’ascesa politica del premier canadese Justin Trudeau, i colossi USA Apple e Nike, oligarchi e imprese a partecipazione statale russi. Ci sono anche milioni di sterline di profitti generati da proprietà private della regina Elisabetta fra gli investimenti offshore di ricchi e potenti svelati dai documenti. La regina risulta aver investito ingenti somme nel paradiso fiscale della Cayman attraverso il Ducato di Lancaster.
Va fatta necessariamente una precisazione. Che i paradisi fiscali diano dei vantaggi lo dice il nome: si definiscono tali quei Paesi che applicano a un soggetto aliquote d’imposta inferiori della metà di quanto applicato dal Paese di residenza. Tuttavia si può discutere se sia morale o meno rifugiarsi in un paradiso fiscale pur rimanendo nella legalità. Infatti, non tutto ciò che ruota attorno ai paradisi fiscali è illegale e una data operazione finanziaria può essere definita illegale solo dopo che un procedimento giudiziario è arrivato a conclusione. Affinché un’operazione societaria o finanziaria risulti illegale dev’esserci fraudolenza, ovvero si rappresenta una situazione che non corrisponde alla realtà, ad esempio alcuni redditi risultano andare a una società e invece sono percepiti da una persona.
Bisogna valutare caso per caso. Ciò che emerge dallo scandalo, per ora, è che i governi interessati promettono di correre ai ripari, mentre fioccano smentite e precisazioni da parte dei personaggi chiamati in causa per gli emersi investimenti nei paradisi fiscali.
Che cosa insegna tutto ciò? Nel momento in cui stiamo giocando la nostra partita e abbiamo le carte in mano possiamo aguzzare l’ingegno e trovare la strategia vincente oppure tirare a caso a seconda di come gira la sorte. Se il caso è dalla nostra, tutto fila liscio indipendentemente dalle nostre più o meno spiccate abilità di giocatori. Ma se il gioco non va come vorremmo sta a noi reagire focalizzando gli errori e perfezionando la tecnica, oppure buttare tutto all’aria e rinunciare o rimescolare le carte partendo da zero. Tutto è legittimo, ma dobbiamo ricordarci che le carte nel mazzo sono sempre le stesse: la fortuna può anche variare, ma lo spessore del giocatore si riconosce dalle mosse che fa (o non fa).
Buona Settimana!
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)