Tempo medio di lettura: 5 minuti
Amati Lettori, buongiorno.
È molto raro che decida di scrivere a proposito di omicidi, femminicidi o stragi familiari. Anche quando fanno notizia. Anche quando sembra, tacendo, di “bucare” la notizia o – peggio – di essere indifferente a certe problematiche del tessuto sociale.
Non lo sono, non lo sono mai stata “indifferente”. E, anzi, col passare degli anni la consapevolezza del rischio e la paura che possa succedere qualcosa di male sono aumentate sempre di più. Se ne sentono troppe, e troppo varie sono quelle che potremmo definire le “cause” (anche se – ne sono fermamente convinta – nessuna “causa” può valere una vita umana).
E allora perché, di solito, non ne parlo? Per due motivi, legati a scelte personali: il primo è che quando ho deciso di portare avanti la mia attività giornalistica nei ritagli di tempo che a stento riesco a riservarmi ho scelto di occuparmi prevalentemente di politica e geopolitica, per cercare di capire e far capire il senso di quello che facciamo al di là dei cosiddetti “flash d’agenzia”. Il secondo ha invece alla sua radice una ragione tanto forte quanto (me ne rendo conto) discutibile: temo che a forza di annunciare a tambur battente certe notizie – che sono veri e propri drammi, per chi li vive – da un lato ci si possa fare “l’abitudine” e dall’altro si possano in qualche modo legittimare gesti estremi come “soluzioni” a sensazioni di malessere o disagio.
Detto ciò, perché scelgo invece – oggi – di parlare di quelli che, banalmente, potrebbero essere definiti “ragazzi cattivi”…? Quelli che commettono reati. Quelli dei gesti senza ritorno. Quelli per i quali il primo pensiero è chiuderli in una cella e, se possibile, buttare via la chiave.
Ebbene, oggi scelgo di parlarne dopo un incontro testimonianza ricco di spunti di riflessione con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano e fondatore della comunità di accoglienza “Kayrós” (associazione nata nel 2000 a Lambrate con l’obiettivo di offrire supporto e alloggio a minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i Minorenni, dai Servizi Sociali e dalle forze dell’Ordine, il cui motto è proprio “Non esistono ragazzi cattivi”) tenutosi il 5 Settembre presso il teatro dell’oratorio Sant’Angela Merici di Brescia moderato dal curato don Filippo Zacchi.
“Non esistono ragazzi cattivi”
“Non esistono ragazzi cattivi”, alla luce anche delle più recenti notizie di cronaca, sembra una Provocazione con la “P” maiuscola. Don Claudio lo sa, è abituato a critiche e polemiche di ogni genere soprattutto in momenti come questo. È difficile capirlo, ma lui ne è convinto: non esistono ragazzi cattivi.
I suoi ragazzi sono come tappeti fatti di tanti fili il cui retro è rovinato (si vedono le cuciture e gli errori), ma davanti si può arrivare a trovare la bellezza e l’armonia. Intrecciare, intessere è molto importante: è proprio attraverso questi legami – facili, difficili – che si creano magie.
Don Claudio, che cosa c’è nel tuo cuore che vorresti raccontarci?
La vita è fatta di prove, quando un ragazzo sbaglia dobbiamo ricordarci che è dentro un viaggio. Usando la metafora del “coro”, si potrebbe dire che un ragazzo a volte è stonato, e bisogna che venga educato. Stare in comunità significa saper aspettare che ciascuno trovi la propria voce, con l’intonazione giusta.
I miei sono tutti ragazzi un po’ stonati, inizialmente. Laddove trovano però una guida che li porta dentro un’esperienza di “coro” arrivano poi una sintonia e tutti questi “fili” apparentemente intrecciati male – per tornare all’immagine del tappeto – diventano poi una tessitura bellissima. La cattiveria c’è, esiste, ma non è l’ultima parola. Bisogna lavorarci, ed essere presenti.
Don Claudio è accompagnato da Mario, ragazzo di 23 anni, da un anno e sette mesi in comunità: è Burgio che gli domanda di raccontare quello che si sente della propria esperienza.
Ho chiesto io a don Claudio di poter entrare in comunità. Arrivavo da una situazione famigliare che sentivo oppressiva: dopo anni di disagio e discussioni, costrizioni in cui mi sentivo in gabbia, sono scappato di casa e ho commesso un paio di reati, poi non potevo rientrare per la vergogna e l’arrabbiatura, così con mio padre ho chiesto a don Claudio di essere accolto in Kayrós.
Quando si parla di disagio giovanile si pensa subito ad etichettare: Mario era un ragazzo “normale”, in una famiglia “normale”. Don Claudio riprende quindi la parola, e racconta l’incontro con Riccardo, l’autore della “strage” di Paderno Dugnano.
Le parole “non ce la facevo più”, “ero oppresso dalla famiglia”, “volevo emanciparmi”, “mi sentivo un estraneo in casa”… le ho sentite proprio oggi da Riccardo. Per fortuna, non tutti agiscono come lui, ma il fatto ci inquieta e non poco perché il disagio ormai attraversa tutte le fasi sociali, non è un fenomeno che riguarda solo le situazioni più a rischio di “assenza” dei genitori.
Chiediamo quindi a Mario, dal proprio punto di vista, perché i ragazzi arrivano a sentire la famiglia come un’oppressione?
È una domanda molto personale che andrebbe rivolta ad ogni ragazzo preso come singolo. I miei sono sempre stati abbastanza rigidi, mia madre non concepiva il fatto che potessi incontrare compagnie sbagliate e – cercando di tenermi il più al sicuro possibile – ha causato in me un’esplosione. Magari nel caso di Riccardo è stata più un’implosione, l’ha fatta all’interno del contesto famigliare.
Il disagio si prova o per eccessivo controllo dei genitori o per una totale mancanza. Nel primo caso la famiglia è apparentemente normalissima, però i figli vivono l’oppressione in maniera esagerata. Nel secondo caso stanno tutto il giorno per strada fin da bambini, a fare il palo o a spacciare.
È il “doppio binario” di chi c’è troppo o c’è troppo poco. Don Claudio approfondisce il primo aspetto, che raramente si prende in considerazione.
La presenza eccessiva, ingombrante, del genitore “normale” può diventare un’insidia per tessere un’opera d’arte, soprattutto quando il genitore veicola i propri figli verso strade già in qualche modo attese e non ascolta la vocazione reale.
Questa è una delle cause forti di questo disagio: è chiaro che un genitore vuole il meglio per i propri figli, ma questo non è sufficiente perché un figlio colga nei suoi ideali qualcosa di buono per sé.
I ragazzi spesso raccontano che gli adulti parlano come i manuali, che dicono cose che poi non vivono, che i loro valori sono “scatole vuote” perché li proclamano e poi non li vivono: a quel punto sono disorientati, perché vedono un modello non credibile, non coerente e comunque molto lontano da sé. Alla fine, quindi, si sentono soli: non riescono ad essere aiutati in quella che è la loro storia presente.
Viene dunque spontaneo chiedere: come possono, gli adulti, essere d’aiuto?
Lo sforzo adulto dev’essere quello dell’epochè: parola greca che significa non giudicare immediatamente, ma fermare il giudizio, provare ad ascoltare. Tu, adulto, devi avere il coraggio di entrare nel loro linguaggio, nelle loro musiche, nel loro repertorio di vita. Allora ti si spalanca un mondo e capisci come tante nostre parole sono parole vuote: non arrivano, perché nascono da convenzioni e non da convinzioni.
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)