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Amati Lettori,
le prime pagine da alcuni giorni sono dominate da Gerusalemme: lo scorso mercoledì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump l’ha riconosciuta come capitale d’Israele e ha annunciato di volervi trasferire l’ambasciata americana per manifestare che qualunque processo di pace avverrà alle condizioni di Netanyahu.
Attenzione: va ricordato che la decisione di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele non è stata presa ex abrupto pochi giorni fa da Trump. Si tratta di una Legge del Congresso statunitense, approvata nel 1995, la quale prevedeva che ogni sei mesi il presidente in carica potesse rinviare il riconoscimento effettivo. Hanno rinviato Clinton, Bush, Obama e inizialmente anche lo stesso Trump.
L’annuncio ufficiale del tycoon è avvenuto nella giornata del 6 Dicembre: “È ora di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Ho dato istruzioni di muovere l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Questo non significa un cambiamento nell’impegno degli Stati Uniti a favore del negoziato di pace, ma è ora di riconoscere un fatto ovvio. Non possiamo risolvere la questione mediorientale con il vecchio approccio, ne serve uno nuovo”.
Quale sia questo nuovo approccio è ancora tutto da vedere. Da un lato, Trump chiede che Gerusalemme resti la città santa per le tre religioni – ebraica, cristiana e islamica – e si propone di fare tutto ciò che è in suo potere per un accordo di pace israelo-palestinese che sia accettabile per entrambe le parti. Dall’altro lato, Hamas – ovvero l’ala estremista del movimento palestinese – invita alla rivolta, anche se nessuna intifada potrà mutare la realtà dei fatti e cioè che Israele domina e i palestinesi sono dominati.
Per comprendere come i governanti israeliani abbiano potuto attraversare i decenni senza mai recedere dal loro intento finale, che è quello di sottomettere la Palestina e imporre Gerusalemme quale propria capitale al mondo intero (come dimostrano le parole del premier israeliano Netanyahu durante gli incontri diplomatici con i vertici UE), occorre conoscere la strategia fondamentale degli israeliani che consiste nel non avere nessuna strategia se non l’attesa. Netanyahu non deve fare altro che aspettare.
Attendere è un lusso strategico che Netanyahu può permettersi perché, di fatto, Israele non ha più nemici reali. Nessun Paese può sfidare la sua potenza da quando ha acquisito la bomba atomica: così come gli Stati Uniti non possono più invadere la Corea del Nord, nessuno Stato può invadere Israele. Una volta stabilita la supremazia militare, Israele ha semplicemente operato per impedire a qualunque altro paese del Medio Oriente di sviluppare un programma nucleare.
Trump, con il suo annuncio, non ha fatto altro che mettere a nudo il fatto evidente che le dinamiche fondamentali in Medio Oriente dipendono dalle armi. Il processo di pace in Palestina è diventato soltanto un esercizio retorico in quanto Israele non ha più niente da chiedere ai suoi nemici, dato il modo in cui si sono evoluti i rapporti di forza dal 1967 a oggi: un tempo chiedeva sicurezza in cambio della restituzione dei territori occupati, adesso è uno dei Paesi più sicuri del mondo. È, di fatto, inattaccabile.
Indubbiamente il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme accenderà il Medio Oriente, ma, seppur in fiamme, non esiste attore mediorientale che possa modificare i rapporti di forza esistenti: gli Stati, che un tempo marciavano uniti per distruggere Israele, non hanno saputo costruire alcuna coalizione o alleanza strategica per aiutare concretamente il movimento palestinese.
Alla luce dell’annuncio di Trump, il leader palestinese Abu Mazen, l’omologo egiziano Al Sisi e il re Abdallah di Giordania si sono incontrati al Cairo, mentre la Camera bassa del Parlamento giordano ha votato all’unanimità una mozione per chiedere di rivedere tutti gli accordi firmati finora con Israele, e in particolare il Trattato di Pace del 1994.
Poche ore dopo, il presidente russo Vladimir Putin è volato anch’egli al Cairo per siglare un accordo con l’Egitto circa la costruzione della prima centrale nucleare nel Paese transcontinentale. L’impianto avrà quattro reattori da una potenza ciascuno da 1.200 megawatt e sarà realizzato nella regione di Dabaa, nel nord del Paese. Il progetto costerà circa 25 miliardi di dollari e sarà completato in 12 anni, sarà quasi interamente finanziato dalla Russia e sarà ripagato dall’Egitto in 35 anni. Durante la visita al Cairo, Putin e Al Sisi hanno anche discusso dei recenti sviluppo in Medio Oriente e del meccanismo che consentirà ai due Paesi di utilizzare i reciproci spazi aerei e gli aeroporti per scopi militari.
Il mondo guarda tutta la questione mediorientale col fiato sospeso: pochi si rendono conto che è qui che vanno in scena i rapporti di forza fra Oriente e Occidente, intrecciati con le vicende locali. Si tratta di una disputa – a distanza di tempo e spazio – che cela il reale obiettivo del predominio di potere.
Buona Settimana!
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)