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Amati Lettori,
doveva finire così: forse non c’era altra via d’uscita. Forse era già tutto stabilito. Forse abbiamo fatto comunque del nostro meglio restando in campo fino a quando abbiamo potuto. Fino al triplice fischio. Fino a quando il cuore si è fermato. Nel momento in cui cala il sipario, non c’è modo di ritornare all’inizio dello spettacolo. Il teatro della vita non ha il tasto “replay”. Quel ch’è fatto, è fatto. Bene o male che sia andata, si arriva al capolinea e si scende dal treno. Ci sarà Qualcuno ad attenderci…?
Le riflessioni di questa settimana mescolano il sacro al profano. Da un lato, abbiamo le Parole del Papa: nel messaggio inviato alla “World Medical Association” Bergoglio ha affrontato la questione del “fine-vita”. È moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure”.
Già Pio XII, in un memorabile discorso rivolto sessant’anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene. L’aspetto peculiare di tale criterio è che prende in considerazione “il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali”. Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”.
Non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Ciò, si badi bene, ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo e le scelte difficili che occorre assumere ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa.
Nelle stesse ore, in fin di vita si trovava il boss corleonese Totò Riina: è deceduto venerdì notte, alle 3:37. Arrestato il 15 Gennaio del 1993 dopo 24 anni di latitanza, era ancora considerato dagli inquirenti il capo indiscusso di Cosa Nostra. Stava scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del ’93, nel Continente. Fu sua la scelta di lanciare un’offensiva armata contro lo Stato nei primi anni Novanta. Mai avuto un cenno di pentimento, fino alla fine. A Febbraio scorso, parlando con la moglie, diceva: “Sono sempre Totò Riina, farei anche 3.000 anni di carcere”.
Con il parere positivo della Procura nazionale antimafia e dell’Amministrazione penitenziaria, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva firmato il permesso ai figli per stargli vicino nel Reparto detenuti dell’ospedale di Parma, dov’era ricoverato. Riina ha avuto un’assistenza sanitaria e cure adeguate fino all’ultimo momento, lo Stato ha garantito cifra di civiltà che corrisponde alla sua natura democratica. Tuttavia, come ha sottolineato anche il presidente del Senato Pietro Grasso, la pietà di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato.
Riina porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla. È morto il protagonista di una stagione, ma la stagione di oggi, seppur forse meno rumorosa e sanguinaria, non è meno pericolosa: la mafia sa cambiare, e l’impressione che in qualche modo con questa morte si chiuda una pagina non ci deve indurre ad abbassare la guardia.
Per concludere, un ultimo pensiero a chi la guardia l’ha abbassata e ha pensato che bastasse chiamarsi “Italia” per vincere le Qualificazioni ai Mondiali. Di acqua sotto i ponti, in questi giorni, ne è passata parecchia. Ciononostante ancora non è passata la delusione per ciò che poteva essere e non è stato. Certo, le colpe si dividono, ma la sensazione è che chi dovrebbe assumersene la responsabilità non abbia alcuna intenzione di farlo.
Gian Piero Ventura in primis: il CT non solo ha propinato scuse tardive e per di più indotte, ma ha aspettato di essere esonerato dalla FIGC in modo da prendersi pure la “buona uscita”. E sulla stessa lunghezza d’onda troviamo del resto anche l’attuale presidente della FIGC Carlo Tavecchio, che non si è dimesso per presentare un programma su cui chiede fiducia al Consiglio federale.
Le uniche parole sensate, in questo immenso show, sono state quelle del ministro dello Sport, Luca Lotti, all’indomani dell’eliminazione choc degli Azzurri: “Il calcio va rifondato del tutto. È il momento di prendere delle scelte che forse negli anni passati non si è avuto il coraggio di prendere. Questo mondo va fatto ripartire dai settori giovanili fino alla Serie A”.
Per imparare da una sconfitta, bisogna capirla. Lo stesso discorso vale per una morte che segna la fine di un’era. Se non ripercorriamo il passato istante dopo istante analizzandone le dinamiche, non riusciremo veramente a comprendere ciò che accade nel presente e ancor meno saremo pronti ad affrontare il futuro. Facciamo domande, cerchiamo risposte.
Buona Settimana!
Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)